Il Tallone d'achille
L'Italia fuori dalla ricerca, o ricercatrici e ricercatori fuori dall'Italia?

di Flavia Zucco
(biologa CNR)

 

Forse per capire cosa sta succedendo alla ricerca italiana, bisogna individuare i diversi piani in cui il problema deve essere inquadrato. Esiste, infatti un livello di discussione sovrastrutturale sulla natura della scienza contemporanea, di tipo epistemologico e sociologico, di cui sono protagonisti essenzialmente gli addetti ai lavori. Per essi il problema è se e quanto sia cambiata la scienza contemporanea, rispetto a quella di tradizione baconiana, a cui siamo abituati a pensare e la cui immagine è tuttora fortemente presente tra gli scienziati italiani, in particolare, e nel pubblico più in generale. Ci sono pensatori contemporanei che sostengono che la scienza sia finita; che ci troviamo di fronte ad una mutazione profonda di essa, per cui si fa piuttosto ricerca in assenza di ipotesi, essendo un qualche risultato garantito comunque dalla ricchezza di tecnologie a disposizione; che il mercato ne è la guida; che la novità sia il prodotto ricercato, piuttosto che la conoscenza. Tale rappresentazione della scienza trova i suoi esempi più convincenti nella biologia contemporanea, a proposito dei quali si fa richiamo a responsabilità etiche molto più allargate per lo scienziato, di quanto non fosse la pura e corretta adesione al metodo scientifico.

Il dibattito è molto articolato e complesso: ci sono scuole di pensiero che sostengono che di fatto anche la scienza del passato ha assunto queste vesti, magari in forme diverse in relazione ai tempi ed alle strutture sociali esistenti. Altre pensano che questo cambiamento della scienza contemporanea sia parte di un'evoluzione fisiologica delle procedure della conoscenza, che comunque, prima o poi, verrà di nuovo ad essere protagonista delle nostre attività di ricerca.

Questo livello di riflessione sulla scienza contemporanea non può essere dimenticato quando si discute di riforma degli enti di ricerca: e forse andava meglio esplicitato nella comunità scientifica e non, per capire la necessità e l'urgenza di innovazione delle strutture che fanno ricerca. La riforma era dunque necessaria, tant'è vero che il ministro Berlinguer vi aveva posto mano. Come tutte le riforme che vengono fatte solo quando i "nodi vengono al pettine" si è prospettata, da subito, non indolore per i tagli ed i riassestamenti che avrebbe prodotto. In particolare essa incontrava nel CNR una comunità di scienziati "anziani" piuttosto disincantata, spesso annidata in nicchie di pura sopravvivenza risultato di una gestione di governi dell'ente miope e povera di risorse sia umane che finanziarie. Quella riforma oggi è, comunque, quasi giunta a compimento con difficoltà notevolissime, dopo circa quattro anni in cui il personale interessato, ha vissuto vicende più o meno drammatiche di ricollocamento professionale, ma anche logistico. Nonostante lo scontento di molti (specie dei Direttori estromessi dalla drastica riduzione del numero degli Istituti) un approdo ad una situazione più chiara, e nel complesso ricca di potenzialità, incominciava ad essere intravisto, almeno da parte di coloro che credevano in un futuro del CNR.

La riforma Moratti, è piombata dunque su un ente che stava appena uscendo da uno stato di fibrillazione e incertezze, per proporre una nuova riforma che azzera il processo (ed il lavoro) ormai pluriennale di ristrutturazione, che iniziava a mostrare disegni compiuti, e in molti casi sensati, per buttarlo all'aria, con modi e fini inaccettabili.

Veniamo ai modi: si commissaria un ente senza che siano fornite le motivazioni necessarie ed una procedura straordinaria di questo tipo. Si propongono decreti di riordino, frutto di un disegno a tavolino a carattere prevalentemente semantico (basato sui titoli degli istituti, più che sulla natura delle ricerche effettivamente svolte e delle professionalità disponibili) senza consultare minimamente la comunità scientifica. Si prevedono strutture rigidamente verticistiche, con organismi di governo a carattere eminentemente politico. I decreti vengono discussi ed approvati nelle varie tappe dell'iter parlamentare, senza tenere alcun conto delle manifestazioni di protesta in atto, ampiamente,condivise anche da settori esterni a quello direttamente interessato. Infine, anche per questa riforma, non si prevedono cambiamenti sostanziali in due snodi fondamentali e fisiologici per qualunque riforma si voglia proporre: l'aumento sostanziale dei fondi destinati alla ricerca, e l'apertura alle assunzioni di nuove leve.

Veniamo ai fini: l'utilità della ricerca per il paese è essenzialmente vista come produzione di innovazione per le imprese. L'idea che la ricerca possa anche contribuire a migliorare altre sfere della vita che non quella puramente economica (da cui tutti gli altri miglioramenti discenderebbero automaticamente) domina incontrastata. Ma la cultura in senso lato, la conoscenza, la scuola, la sanità non migliorano solo perché inserite in un circuito economico. A monte ci devono essere attività di ricerca, esplorazione, creatività in grado di disegnare orizzonti impensati, percorsi immaginati, frutto di interazioni libere tra approcci conoscitivi diversi.
Questo punto è il vero tallone d'Achille del governo, che mostra di non capire cosa sia la ricerca scientifica e di quali terreni di coltura abbia bisogno, perché sia vitale e produca quell'imprevedibile prodotto che è la scoperta scientifica. Solo successivamente intelligenti imprenditori sapranno identificare ed utilizzare quelle conoscenze. Perché il punto è anche questo: se c'è qualcuno che non ha saputo fare il suo mestiere, almeno in Italia , è stata proprio l'impresa. Ricordo solo un esempio: il programma finalizzato "bio-tecnologie" del CNR, chiusosi una decina di anni fa, metteva in evidenza come, nonostante l'assoluta adeguatezza dei risultati ai criteri internazionali di valutazione, al contrario di quanto avveniva negli altri paesi industrializzati, in Italia non vi era stata nessuna impresa in grado di utilizzarli. Persino i brevetti erano stati fatti all'estero. Non è, infatti, compito della ricerca produrre per l'impresa, ma è l'impresa che deve essere in grado di usare i frutti della ricerca per innovare i suoi prodotti. E per non dire altro, si pensi alla Fiat!

Avendo brevemente accennato ai problemi che abbiamo di fronte, vorrei tornare al dibattito sulla natura della scienza contemporanea, cui ho accennato all'inizio, perché si capisca, appunto, che nel contrastare questo governo e le sue iniziative in tema di ricerca, non si sta difendendo un orticello di privilegiati, ma si sta tentando di contrastare un processo di azzeramento della conoscenza scientifica, ridotta alla pura produzione di tecnologia (che senza ricerca, non potrà durare a lungo).
Piuttosto si vuole rilanciare un processo di produzione di conoscenze e di formazione di nuove figure professionali in grado di fare scienza nel senso pieno del termine, di cui la società contemporanea ha veramente bisogno.